Le storie all’interno di questa sezione sono state leggermente riadattate per far sì che né protagoniste né luoghi siano individuabili, verranno utilizzati nomi di fantasia per tutelare la vostra privacy. Grazie.
Questo che leggerete è il racconto di Stefania, 22 anni.
C’è caldo. Un caldo asfissiante ed ingombrante.
E’ il caldo di giugno. E’ il caldo della preparazione di un esame universitario. E’ l’aria vibrante di torrido vuoto cittadino.
Decido di prendermi una pausa dallo studio: Sì, facciamo quattro passi, mi dico.
Mi rilasso e cerco contestualmente di recuperare un pizzico di energie innovative per memorizzare ancora altro materiale di studio. Ma ho i leggings bianchi, un top color oro, immancabili scarpe da ginnastica, occhiaie e tanta stanchezza, classica tenuta di studentessa universitaria, in preda alla sessione di appello estiva. Non voglio cambiarmi, nonostante Papà mi abbia più volte esortata a non vestir in un determinato “succinto o trasparente modo”; non ho tempo, sono già le 19 ed onestamente non capisco il motivo per cui dovrei adeguarmi al volere di altri, denaturalizzando me stessa. Ok, esco così come sono vestita.
Cammino per strada insieme al mio martoriato mp3 ed inizio a percepirmi seguita da qualcuno o da qualcosa, come se quell’ombra che vedevo proiettata lungo l’orizzonte del marciapiede, non fosse esattamente ed esclusivamente la mia ombra. Così decido di svoltare l’angolo della strada, lì ci sono alcuni magazzini; se volessero rubarmi qualcosa, potrei chiamare aiuto ed esser sentita.
Errore di valutazione: è il 2 Giugno, la Festa della Repubblica. Poche persone vagano per le strade cittadine. Ormai la decisione è presa, svolto l’angolo.
Giù. A terra, contro la ringhiera che cinge le aiuole poste davanti al negozio di abbigliamento.
Non capisco nulla. Cosa sta succedendo? C’è qualcuno o qualcosa dietro di me? Sono caduta a terra da sola, sono inciampata o qualcuno mi ha gettato a terra?
Qualcuno mi ha gettato a terra. Qualcuno mi guarda fisso negli occhi, non appena mi volto innanzi a lui, poco dopo essere riuscita ad alzarmi da terra.
Non so chi sia, cosa vuole questo tizio da me!?
Mi guarda. Mi “accarezza”, no, mi “tocca”. Mi “palpa”.
Devo fare qualcosa -penso- devo reagire, qui la situazione sta degenerando e non mi piace.
Parlo, urlo, cerco di divincolarmi dalla morsa in cui mi cinge. Sono fottuta, cazzo! E’ un gigante! Sarà circa 1.90 contro i miei 160 cm. Ho un suo ginocchio piantato tra le gambe e l’altra sua gamba che mi paralizza, dietro la schiena, scaraventata contro la ringhiera di ferro. Gli occhiali da sole per terra, l’ mp3 per terra, ricado anch’io, nel tentativo estremo di fargli mollare quella presa.
Siamo entrambi per terra. Lui è sopra di me, io urlo ma lui mi dà un pugno per farmi tacere. Nel mentre giro il viso per terra per il pugno sferrato, mi abbassa i leggings. Sono in slip. Slip, top e sangue che mi cola sul viso, per il contatto con le sue lurida dita.
Trovo la forza, l’audacia di urlare ancora. Lo sto facendo – mi domando- Riesco ancora ad urlare? Ok, allora sono viva. E’ un incubo ma sono viva. Lui è nudo. Oddio che faccio. E’ sopra di me, senza boxer, si masturba.
Arriva qualcuno. Sento dei passi. E’ un’ allucinazione? – mi domando!? Sono smarrita, non capisco nulla, aiuto – continuo ad urlare- sono immobile, inerme, come paralizzata ma urlante, insaguinata ma viva, o meglio, “sopravvissuta”.
Non scorgo da che parte arriva un altro tizio, sono ancora a terra. Ma arriva un Uomo che di improvviso prende per le spalle il mostro sopra di me. Lo sposta via da sopra il mio corpo.
Io sono a terra, ancora. Riconosco l’Uomo che è intervenuto, è il marito della titolare di un negozio lì vicino. L’ Uomo inizia a parlare animatamente con il mostro. Arriva Giada, la titolare del negozio che mi soccorre.
Il mostro scappa, gira l’angolo e scompare. Io mi rialzo grazie a Giada.
Lei ed il marito mi accompagnano in negozio per farmi sentir “viva, pulita, Libera”.
Mi accompagnano al pronto soccorso insieme a mio Papà, accorso sul luogo.
Il Martedì seguente a quella dannata domenica 2 Giugno, mi reco all’Università: Ho il Dovere Morale di sostenere quell’esame in cui tante energie avevo investito. Avevo il Dovere Morale a che il mostro non vincesse su di me, sul mio impegno, sulla mia dedizione, sul mio sacrificio, sulla mia Dignità. Prendo 30. Il più resiliente 30 di tutta la mia Vita. Il più bel 30 di tutta la mia carriera accademica. Il 30 vittorioso sul mostro. Il 30 vittorioso per me Libera.
72 giorni passano dall’accaduto per la denuncia presso la Procura della Repubblica.
72 giorni passano dall’accaduto per capire se, cosa, come, perché, reagire penalmente contro ignoti con il duplice rischio sia di non individuare né identificare mai il mostro, che di andar incontro ad un processo penale in cui dovrò aver un nuovo contatto con lui.
72 giorni passano dall’accaduto in cui oscillo dalla sensazione di sudicio, al lavarmi costantemente le mani ed il collo ed il basso ventre, dalla sensazione di averlo sempre addosso a me stessa, seppur non su di me corporalmente, al voltarmi di soprassalto per strada, senza alcun motivo né richiamo di persona conosciuta.
72 giorni di paura, puzzo del mostro in me, mani del mostro contro di me, voce del mostro accanto a me.
72 giorni di rabbia con me stessa per non aver dato ascolto a Papà nel dovermi vestir in maniera diversa; delusione con me stessa per non esser riuscita a combattere fisicamente il mostro; lacrime; poliziotti che domandano la motivazione per cui indossassi i leggings bianchi; vergogna, tanta, troppa.
72 giorni in cui guardo e guardo ancora ed ancora il filmato che il sistema di video-sorveglianza del centro commerciale che aveva ripreso – per mia fortuna/ sfortuna – l’accaduto ed il mostro.
Varco l’ingresso del Centro Antiviolenza della mia città.
Sono trascorsi oltre 70 giorni dal mio incontro con il mostro e smarrita, cerco identificazione, riconoscimento, senso di Libertà e Ascolto in una volontaria che lì conosco.
Può aiutarmi? Ha voglia di ascoltarmi? Ha i mezzi per non farmi percepir colpevole al pari del mostro? Ha gli strumenti per farmi percepir immune dalla vergogna che mi accompagna quotidianamente, allorché cammino per strada?
E’ gentile. Mi ascolta. Mi abbraccia. Non mi fa sentir sola o abbandonata. Mi dà Libertà.
Mi dà autostima. Mi dà Amore sincero. Mi lava della vergogna.
Inizio a respirare ossigeno, ancora una volta per strada, quella strada che tanto avevo odiato.